giovedì 3 aprile 2014

DISOCCUPAZIONE NEL MONDO


Mentre il Giappone presenta solo il 3,7% di disoccupazione, la cosa sorprendente sta nel fatto che i paesi dell’area Euro, i cosiddetti paesi industrializzati, mostrano dei livelli allarmanti di disoccupazione.  La zona Euro ha quasi il 12% di disoccupati (il doppio del Cile e 3 volte il Giappone). La politica disfattista europea, evidentemente, ha ben contribuito alla mancata crescita dei posti di lavoro. Si è troppo badato alla austerità e poco alla produttività e al progresso. Nonostante la grave situazione greca, quest’ultima registra lo 0,52% in meno di disoccupazione (fanalino di coda con oltre il 27% di inoccupati insieme alla Spagna), esistono in Europa paesi virtuosi come quelli scandinavi. In realtà è la Norvegia la nazione con la disoccupazione più bassa al mondo, con solo il 3,6% di inoccupati. Meno tasse e meno Stato è stata la svolta di Oslo. Non una svolta verso uno Stato minimo, ma verso uno Stato leggero, verrebbe da dire low cost, cioè in linea con i desideri dei contribuenti-elettori.
Prendo spunto dall’analisi di Edoardo Narduzzi uscita sul quotidiano Italia Oggi.



Dopo otto anni di socialdemocrazia la Norvegia, unico paese tra quelli Ocse a non avere neppure un centesimo di debito pubblico, sceglie di essere uno dei leader del riformismo globale di questo inizio di ventunesimo secolo. La maggioranza degli elettori affida al premier, Erna Solberg, un programma di riforme che sarebbero state, non solo utopiche, ma perfino criminogene se proposte in Scandinavia nel secondo Novecento. Meno tasse e riduzione importante della pressione fiscale, privatizzazioni delle imprese pubbliche, dismissione di parte del patrimonio del fondo sovrano che ha accumulato ben 750 miliardi di euro, rivisitazione della presenza pubblica nell’organizzazione dell’offerta dei servizi del cosiddetto welfare state. Per un paese che, di fatto, non ha inflazione (l’1%), che convive con una disoccupazione minima del 3%, che non ha problemi di sostenibilità del sistema previdenziale grazie ai ricchi e continuativi proventi del petrolio e che vanta una qualità media di vita da primato per le varie classifiche internazionali in materia. La svolta programmatica lancia un segnale che va ben oltre Oslo e impatta tutti i paesi occidentali, quelli che un tempo venivano classificati come economie avanzate, costretti a fare i conti con la globalizzazione.
La maggioranza degli elettori norvegesi, i più patrimonializzati al mondo quindi anche quelli teoricamente meno preoccupati dal cambiamento, si è pronunciata in favore di riforme che modifichino, non superficialmente, gli equilibri del ’900 tra uno Stato che fa troppo e un privato che deve pagare troppe tasse per mantenerlo e conserva troppo poco per investire su se stesso per restare competitivo nella globalizzazione.
La politica norvegese, dedita all’occupazione ed al benessere dei propri cittadini dovrebbe rappresentare un esempio pratico per i governanti del mondo, e non solo per quelli dell’area euro. Perché nessuno trae spunto dalle riforme norvegesi? Perché risultano essere scomode? Forse le risposte ci sono, però mancano gli interpreti che diano voce alle stesse.


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