Mentre il Giappone presenta solo il
3,7% di disoccupazione, la cosa sorprendente sta nel fatto che i paesi dell’area
Euro, i cosiddetti paesi industrializzati, mostrano dei livelli allarmanti di
disoccupazione. La zona Euro ha quasi il
12% di disoccupati (il doppio del Cile e 3 volte il Giappone). La politica
disfattista europea, evidentemente, ha ben contribuito alla mancata crescita
dei posti di lavoro. Si è troppo badato alla austerità e poco alla produttività
e al progresso. Nonostante la grave situazione greca, quest’ultima registra lo
0,52% in meno di disoccupazione (fanalino di coda con oltre il 27% di
inoccupati insieme alla Spagna), esistono in Europa paesi virtuosi come quelli
scandinavi. In realtà è la Norvegia
la nazione con la disoccupazione più bassa al mondo, con solo il 3,6% di inoccupati. Meno tasse e meno Stato è stata la svolta di Oslo. Non una svolta verso
uno Stato minimo, ma verso uno Stato leggero, verrebbe da dire low cost, cioè
in linea con i desideri dei contribuenti-elettori.
Prendo spunto dall’analisi di Edoardo Narduzzi uscita sul
quotidiano Italia Oggi.
Dopo otto anni di socialdemocrazia la
Norvegia, unico paese tra quelli Ocse a non avere neppure un centesimo di
debito pubblico, sceglie di essere uno dei leader del riformismo globale di
questo inizio di ventunesimo secolo. La maggioranza degli elettori affida al
premier, Erna Solberg, un
programma di riforme che sarebbero state, non solo utopiche, ma perfino
criminogene se proposte in Scandinavia nel secondo Novecento. Meno tasse e
riduzione importante della pressione fiscale, privatizzazioni delle imprese
pubbliche, dismissione di parte del patrimonio del fondo sovrano che ha
accumulato ben 750 miliardi di euro, rivisitazione della presenza pubblica
nell’organizzazione dell’offerta dei servizi del cosiddetto welfare state. Per
un paese che, di fatto, non ha inflazione (l’1%), che convive con una
disoccupazione minima del 3%, che non ha problemi di sostenibilità del sistema
previdenziale grazie ai ricchi e continuativi proventi del petrolio e che vanta
una qualità media di vita da primato per le varie classifiche internazionali in
materia. La svolta programmatica lancia un segnale che va ben oltre Oslo e impatta
tutti i paesi occidentali, quelli che un tempo venivano classificati come
economie avanzate, costretti a fare i conti con la globalizzazione.
La maggioranza degli elettori norvegesi, i più patrimonializzati al mondo quindi
anche quelli teoricamente meno preoccupati dal cambiamento, si è pronunciata in
favore di riforme che modifichino, non superficialmente, gli equilibri del ’900
tra uno Stato che fa troppo e un privato che deve pagare troppe tasse per
mantenerlo e conserva troppo poco per investire su se stesso per restare
competitivo nella globalizzazione.
La politica norvegese,
dedita all’occupazione ed al benessere dei propri cittadini dovrebbe rappresentare
un esempio pratico per i governanti del mondo, e non solo per quelli dell’area
euro. Perché nessuno trae spunto dalle riforme norvegesi?
Perché risultano essere scomode? Forse le risposte ci sono, però mancano gli
interpreti che diano voce alle stesse.